C’era una volta il maggio francese, quello del 1968, la più grossa rivoluzione sociale dai tempi di quella che è considerata la Rivoluzione per eccellenza, Anno Domini 1789. Il fermento nato per le strade di Parigi poco più di 40 anni fa fu un evento poderoso, con enorme risonanza internazionale, uno schiaffo in piena faccia ai centri di potere e di sottomissione culturale dell’epoca: sull’onda del capolavoro di Marcuse “L’uomo a una dimensione”e dei suoi motti inneggianti alla liberazione dell’eros, intesa come liberalizzazione non solo sessuale ma anche dell’energia creativa, e al rifiuto verso ogni forma di repressione e di schiavitù tecnologica, gli studenti affrontarono di petto realtà considerate intoccabili, come imperialismo, capitalismo e accettazione incondizionata dei valori occidentali. E dalla Francia il movimento di protesta più clamoroso del ‘900 si spostò in Europa e in tutto il mondo, senza raggiungere risultati politicamente rilevanti, ma segnando un punto di non ritorno nei rapporti tra cultura e politica.

Quello che accade oggi nelle università francesi è molto meno rilevante e “rumoroso”. Sono lontani i fasti del ’68, dell’epoca in cui si provava l’ebbrezza di avere voce in capitolo come mai prima di allora. Oggi si ha la sensazione che la democrazia e il diritto di esprimere la propria opinione siano realtà consolidate e ottenute con anni di lotte continue, anche se altrettanto chiara sembra la sensazione che la società sappia controllare la libertà di espressione con modalità molto più sofisticate di quelle messe in pratica in passato, quando l’ostentazione del potere si serviva di metodi più “grezzi” ed ingenui.  Anche oggi però si ha voglia di far sentire le proprie ragioni a chi sta in alto, e le manifestazioni di protesta continuano a rappresentare il dissenso di chi vorrebbe veder tutelati i propri diritti di cittadini.

Oggi si protesta contro i tagli all’università, e a scendere in piazza con gli studenti ci sono anche professori, ricercatori, presidi e rettori, tutti travolti dal mare della crisi e dalla superficialità con cui viene trattato il mondo della cultura. Nel mirino finisce il ministro della ricerca, Valérie Pécresse, e soprattutto il Presidente Nicolas Sarkozy, reo di un approccio molto leggero verso il mondo dell’istruzione, tanto da mettere in secondo piano il concetto di competenza per la riorganizzazione del sistema universitario transalpino, affidato sempre più all’azione di politici, burocrati e amministratori. Ma la ciliegina su questa torta indigesta, che ha fatto venire il mal di stomaco a tutti quelli che dovrebbero essere gli attori principali della vita universitaria, è il disprezzo mostrato da Sarkozy verso la cultura in generale, trattata alla stregua di un innocuo e trascurabilissimo passatempo: l’esternazione principale è stata l’elezione del romanzo “La principessa di Clèves” ( di Madame de la Fayette, 1678 ) a simbolo dell’inutilità della letteratura. Per tutta risposta la protesta ha eletto come simbolo proprio questo romanzo del XVII secolo sbeffeggiato da Monsieur Sarkozy. Segnale importante, vigoroso, ironico, teso a smascherare l’ignoranza di chi sta in alto. Ma è prevedibile che il tutto rimanga sterile, così come in Italia, nonostante le dure contestazioni. Pensare ad un mondo migliore, meritocratico, ad una società che sappia far crescere i propri giovani in un ambiente universitario adeguato rimane un’utopia, la stessa che, ingenuamente, si pensava di poter realizzare più di quarant’anni orsono.

                                                          FERDINANDO MORABITO

I commenti sono chiusi.