Negli ultimi anni, il settore della ricarica wireless è (metaforicamente) esploso: dalle basette da tenere sulla scrivania in ufficio a quelle integrate nei portaoggetti delle automobili, sempre più consumatori scelgono la comodità e la naturalezza di un gesto semplice come quello di appoggiare il proprio dispositivo – smartphone o cuffiette che siano – su di un supporto.
Ma se questa tecnologia ha indubbi lati positivi, come il non dover cercare il cavo di alimentazione per collegarlo allo smartphone o la minor usura della porta USB (o Lightning), spesso si ignorano i “costi nascosti”.
In media, infatti, la ricarica wireless consuma il 47% in più rispetto ad altri metodi più tradizionali, percentuale che cresce se il dispositivo non è correttamente allineato alla basetta. Perché?
Ciò dipende dalla natura stessa della tecnologia, per cui la corrente elettrica, generata da una piccola bobina presente all’interno della base di ricarica, viene trasferita alla bobina ricevente nel dispositivo attraversando i gusci di plastica di entrambi gli apparati e l’aria circostante; il calore avvertito è il risultato della corrente in eccesso, che va quindi sprecata.
Quali alternative, dunque, per riportare la batteria al 100%? Da un punto di vista energetico, gli alimentatori più efficienti sul mercato sono quelli basati sul nitruro di gallio (GaN), che riescono a garantire un voltaggio e una potenza più alti di quelli tradizionali (a base di silicio), risultando quindi di dimensioni più compatte a parità di Watt.
Ad oggi, l’unico svantaggio è rappresentato dal costo più alto dei caricabatterie GaN, destinato a scendere con la diffusione di tale tecnologia

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