Oltre un terzo di frutta e verdura prodotta non arriva sugli scaffali dei nostri supermercati perché “troppo brutta”; è quanto emerge da una ricerca condotta dall’Università di Edimburgo, che stima in 50 milioni di tonnellate (pari al 33% della produzione) l’ammontare di merce scartata a monte nella filiera. È un problema talmente diffuso che gli agricoltori producono più di quanto stabilito dal contratto con la grande distribuzione, in quanto prevedono che una parte del raccolto non sarà ritenuto idoneo per essere venduto, a causa degli alti standard previsti.
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L’impatto sul cambiamento climatico, rivela lo studio, del cibo sprecato in questo modo equivale alle emissioni di 400 mila automobili; inoltre, gli scienziati hanno sollevato la moralità di tale pratica, in un’epoca in cui quello della denutrizione è un problema che affligge un decimo della popolazione mondiale.
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Sugli alimenti, i consumatori hanno iniziato ad applicare le stesse regole valide per i capi d’abbigliamento, ma l’estetica ha poco a che vedere con la qualità del frutto, da un punto di vista tanto nutritivo quanto del sapore; così pomodori con tagli poco profondi, arance poco lucide, limoni tozzi e carote con delle escrescenze vengono scartati benché al 100% commestibili, quando potrebbero essere utilizzati a pezzi per altri piatti o venduti con forti sconti – anche perché iniziative lanciate in alcuni paesi europei, come Too Good To Waste nel Regno Unito o Les Fruits Et Légumes Moches in Francia, hanno dimostrato come i clienti siano propensi ad acquistare alimenti presenti delle imperfezioni estetiche ad un prezzo più basso.
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L’inversione di questo trend può avvenire però soltanto con un intervento massiccio delle istituzioni; se da un lato l’Unione Europea dovrebbe rivedere le sue regole rigide sulla messa in vendita di prodotti con buon sapore ma “difettati”, dall’altro è necessaria un’educazione al consumo, incoraggiando le persone a riconoscere ed acquistare un buon prodotto ortofrutticolo a prescindere dal fattore meramente estetico.
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