Che si tratti di gradini, servizi igienici non attrezzati, ingressi troppo stretti o pendenze eccessive, nella maggior parte delle città italiane si registra ancora oggi una presenza importante installazioni/elementi costruttivi – più comunemente noti con il nome di “barriere architettoniche” – che impediscono, limitano o comunque rendono difficoltosi gli spostamenti e la fruizione di servizi per le persone con limitata capacità motoria o sensoriale.

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            Eppure già da parecchi anni l’Italia dispone di una normativa all’avanguardia che affronta il problema dell'accessibilità a 360°, indicando nel dettaglio termini e modalità per garantire a chiunque la praticabilità soprattutto dei luoghi pubblici. Sin dalla seconda metà degli anni Ottanta, infatti, il nostro ordinamento giuridico è stato interessato da più interventi da parte del legislatore finalizzati alla pianificazione, prima, e al raggiungimento, poi, di un livello di fruibilità ed accesso agli spazi in linea con il trend europeo.

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            Più precisamente, al 1986 risale l’introduzione dei Piani per l’Eliminazione delle Barriere Architettoniche – i cd. P.E.B.A., disciplinati dalla L n. 41/1986 e ss.mm. -, la cui adozione da parte degli Enti Locali avrebbe dovuto garantire (ed il condizionale in questo caso è d’obbligo) una costante attività di monitoraggio degli immobili di loro proprietà, oltre che di rilevamento e classificazione di tutte le barriere architettoniche presenti in un'area circoscritta, al fine di individuare le soluzioni progettuali più adatte all’eliminazione di ciascuna barriera individuata, i relativi costi e le priorità di intervento.

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            Con la successiva emanazione della L. n. 13/1989, recante “Disposizioni per favorire il superamento e l'eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati”, si è invece inteso rendere tutti gli edifici e le aree urbane fruibili dalle persone con problemi di mobilità mediante la prescrizione, nel successivo decreto attuativo (D.M. n. 236/1989), di ben tre livelli di qualità dello spazio costruito, e cioè: accessibilità, con ciò intendendosi «…la possibilità, anche per persone con ridotta o impedita capacità motoria o sensoriale, di raggiungere l'edificio e le sue singole unità immobiliari e ambientali, di entrarvi agevolmente e di fruirne spazi e attrezzature in condizioni di adeguata sicurezza e autonomia» (art. 2, lett. G);visibilità, ovverosia «..la possibilità per persone con ridotta o impedita capacità motoria o sensoriale di accedere agli spazi di relazione e ad almeno un servizio igienico di ogni unità immobiliare» (art. 2, lett. H); e poi ancora adattabilità, meglio definita come: «…la possibilità di modificare nel tempo lo spazio costruito a costi limitati, allo scopo di renderlo completamente e agevolmente fruibile anche da parte di persone con ridotta o impedita capacità motoria o sensoriale» (art. 2, lett. I)oggi riconosciuti quali principi essenziali dell’edilizia.

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            I termini e le modalità di costruzione indicati nella legislazione italiana vigente in materia (che consta di numerosi altri interventi normativi successivi a quelli menzionati) sono dunque assai stringenti: sono infatti previsti requisiti specifici e differenti a seconda che si tratti di edifici pubblici o privati, spazi interni o esterni, nuove costruzioni o ristrutturazioni.

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            Ciò non è tuttavia bastato a garantire un reale superamento del problema legato all’accessibilità degli spazi e all’esistenza delle barriere architettoniche. Posto dunque che la normativa esiste e, nonostante tutto, il problema dell’accessibilità persiste, forse è giunto il momento di riconsiderare le barriere architettoniche come un problema sanitario, sociale e culturale prima ancora che edilizio/strutturale: l’indice di civiltà di un Paese si misura anche dall’attenzione verso le persone con disabilità e, guardando la situazione di molte realtà italiane, possiamo concludere senza tema di smentita di avere ancora molta strada da fare.

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